Nina e Cloe sono nate d’urgenza, le acque si sono rotte una notte di maggio del settimo mese. Erano perfette. La sala parto ha fatto in tempo ad affollarsi: alla fine c’erano due équipe intere, una per bambina, oltre ai medici amici e, naturalmente, a noi due. L’emozione era tale che nessuno si è ricordato di riprendere il primo vagito, cosa incredibile se penso che oggi registriamo ogni dettaglio inutile. Da allora non abbiamo più smesso di correre.
Le nostre figlie sono arrivate dopo mille ragionamenti, amate ancor prima di essere pensate e poi volute con tutto il cuore. Sono il frutto di un amore fertile; ci piace questo aggettivo, si adatta perfettamente a una coppia come la nostra, una coppia gay. Le ho partorite io, ma il dolore se lo ricorda meglio Alessandra.
Nella nostra vita le cose sono cambiate tante volte, prima di tutto nella nostra testa. E quando è successo, abbiamo capito che saremmo state in grado di farle cambiare anche nella testa degli altri. Ciò che produce il cambiamento non è tanto cercare di convincere chi si ha intorno: ho passato anni a discutere le teorie, i ragionamenti, la ricerca scientifica, a portare materiale a supporto di tesi che per noi sono lampanti, che non servono a niente se prima non ci arriva il cuore. E sono giunta alla conclusione che chi ha un pregiudizio sull’omosessualità lo supera solo attraverso la comprensione emotiva. Perché il cambiamento è crescita, presuppone conoscenza, esperienza e ancor più esempio, ma soprattutto è contagioso. I primi a dover superare quel pregiudizio siamo proprio noi, e quando lo facciamo creiamo un’onda benefica che si riverbera tutto attorno. Da adolescenti, ripetersi i mantra della ragione – «l’omosessualità è naturale per molte specie animali », «non è una malattia», «non è altro che una diversa modalità affettivo-sessuale» e via dicendo – è servito a tranquillizzarci, a ricordarci che eravamo dalla parte dei giusti. Ma in verità è solo quando ti innamori, quando ti rendi conto che lo stomaco si disperde nel volo di mille farfalle (per una lei anziché per un lui, o viceversa) che la tua mente cede, e non c’è più un solo ragionamento teorico che possa battere la forza di questa realtà.
Le stesse persone che inorridiscono al pensiero di far adottare dei bambini a una coppia gay, si sciolgono quando incontrano realmente una famiglia omogenitoriale. Un esempio classico è quello vacanziero: al mare, sotto l’ombrellone, si consuma il modello del pensiero collettivo italiano. La coppia rigida e inflessibile smette di pensare agli alieni nel momento stesso in cui vede le nostre bambine giocare con la paletta e il secchiello; da quell’istante la loro idea di famiglia subisce un cambiamento e si aggiusta al concetto più ampio rappresentato dalla realtà.
Certo, non viviamo in Olanda, e qui non ci sarebbe mai capitato di incontrare un medico che si scandalizza perché, durante il colloquio per l’inseminazione, al suo chiederci se siamo sposate rispondiamo di «no, proprio no, ma non perché non lo vogliamo, è che da noi non si può!». (In Italia non ci sarebbe nemmeno capitato di fare un colloquio per l’inseminazione!)
L’esperienza diretta è sempre fondamentale per abbattere il pregiudizio, e non solo quando in ballo c’è una famiglia con dei bambini, il cambiamento si crea anche quando si ha il coraggio, o la sfrontatezza – a seconda dei punti di vista – di mostrare i propri sentimenti di coppia. Non è necessario baciarsi sulla metropolitana per seminare messaggi di normalità, basta una risposta semplice a una domanda banale, magari fatta dal panettiere o dal receptionist di un albergo. Quando si smette di far finta di essere amiche che scelgono una camera matrimoniale «per stare larghe», o si risponde con la frase «questa è la mia compagna» a chi ci presenta qualcuno di nuovo, vuol dire che ci stiamo «normalizzando », e vi posso garantire che la reazione è sempre migliore di quella che vi aspettereste. Non vedrete mai nessuno schifato o scandalizzato (casomai penseranno di non aver capito bene), ma nella maggior parte dei casi l’espressione che leggerete sul loro volto sarà di stupore, seguita a ruota da quella di comprensione, o addirittura di complicità per il segreto appena rivelato. È l’effetto della conoscenza diretta, ed è dirompente: trasparenza e sincerità presuppongono un credito di fiducia che fa scattare quasi sempre, e in automatico, una risposta dello stesso segno. Le cose cambiano quando al pasticciere sotto casa spiegate che la vostra ragazza ama le sue torte chantilly; oltre a esserne lusingato, vedrete che non lo dimenticherà facilmente.
Poi, è vero, non sempre si riesce a ottenere il risultato positivo sperato. D’altronde essere omosessuali significa anche conoscere bene quella sensazione di esclusione da giudizio imbrattante, nello sguardo di sottecchi, del commento alle spalle; significa averla sentita anche solo una volta, magari vissuta sulla pelle di qualcun altro, e tanto basta. Significa averla provata, la paura. Che non sempre è un’emozione sfuggente e indistinta, a volte è concreta come un pugno in faccia al grido di «frocio», o come la pioggia di sputi da un branco di «bravi ragazzi». Quella sensazione è la ragione per cui noi, da adolescenti insicuri o da adulti rassegnati, spesso restiamo in disparte, compiendo sforzi impari per cercare di apparire normali.
Poi un giorno ci alziamo dal letto, ci guardiamo allo specchio e ci domandiamo: «Ma escluso da chi, da cosa?». Perché finalmente realizziamo che il mondo è nostro, e ce lo creiamo noi. Che nessuno ci può imporre gli amici, i luoghi, le compagnie, i pantaloni o la vita di qualcun altro. E da creatori del nostro universo possiamo decidere misure e confini, chi sta dentro e chi fuori.
Certo, non possiamo scegliere tutto. I genitori, ad esempio, fanno parte del pacchetto iniziale in cui l’aggiornamento del software potrebbe non essere incluso. Così il nostro mondo felice appena creato rischia di incrinarsi per esclusioni eccellenti. Questa è considerata la grande sfida, quella che ognuno di noi a un certo punto deve decidere se cogliere o rinunciare, il segno della direzione che vuole dare alla propria vita, e non esiste una regola generale: è semplicemente il confronto più impegnativo. Misurarsi con i propri genitori è ancora più difficile che farlo con se stessi o con il resto del mondo, perché loro sono entrambe le cose.
Io sono stata molto fortunata. Alessandra anche. Abbiamo scoperto presto che i nostri non erano avversari bensì alleati, i più cari alleati. Non accade sempre ma credo, con poche eccezioni, che valga comunque la pena provarci. L’alternativa sarebbe esiliarli dal nostro mondo privato. E questo esilio priverebbe gli uni degli altri. Mentre la controindicazione è che ci potremmo fare molto male. E il dolore causato dal rifiuto di un genitore è devastante, secondo solo alla delusione che prova un figlio.
Io amo pensare che anche i nostri genitori possano cambiare, esattamente come noi stessi cerchiamo di fare ogni giorno. Che abbiano solo bisogno del nostro aiuto, come noi del loro, per colmare con le nostre emozioni, che non conoscono e non immaginano nemmeno che possiamo provare, quel vuoto che ci separa. Quel vuoto va riempito della nostra realtà, altrimenti rimarrà un buco colmo di pregiudizi.
Infine, ci sono «gli altri». Eccome se ci sono. Decidono con noi, decidono per noi. Non possiamo pensare che tenerli a distanza ci metta al riparo. «Gli altri» sono i due signori dell’ombrellone accanto, che magari sono anche gli zii di un ragazzo che non ha ancora avuto il coraggio di parlare con i genitori perché il fratello della madre, lui lo sa, odia i gay. «Gli altri» sono il medico di guardia al pronto soccorso che quando la tua compagna entra d’urgenza fermano le tue mille domande con una sola: «Scusi, lei chi è?».
«Gli altri» sono tutti quei gay che deridono la lotta per un matrimonio egualitario o suppongono che una coppia omosessuale non possa crescere bene i figli.
Ma sono anche le maestre del nido di Nina e Cloe che il giorno della Festa della mamma fanno preparare loro il doppio regalo, uno per mamma Fra e uno per mamma Ale, perché per loro è solo una questione di amore. Sono il pasticciere che si ricorda sempre il nome di Alessandra da scrivere sulla chantilly che ordino per il suo compleanno, e ci aggiunge due cuori; o un ex collega che si ricorda di chiederti scusa per un parere sui genitori gay, dato in tempi non sospetti, e di cui non ti ricordavi neanche. E a volte siamo anche noi, «gli altri», noi con i mille pregiudizi che non sospettiamo neanche di avere, noi, che aspettiamo sempre che sia qualcun altro a farsi avanti per ciò in cui crediamo, salvo poi criticarlo. Siamo noi, che cerchiamo negli altri le cose che dovremmo essere noi stessi a dimostrarci: che non serve crearsi un mondo chiuso, perché non dobbiamo salvarci da nessuno, ma vivere nel mondo di tutti, così come siamo. In verità le cose cambiano, sì, ma grazie all’impegno di ognuno.
Attivista per i diritti civili, consulente e giornalista, Francesca Vecchioni è madre e promessa sposa (non mantenuta causa lievi difformità di diritto). Nata a Firenze, cresciuta a Roma, vive a Milano. Il suo blog è www.francescavecchioni.com.